di Ruggero Piperno
Quel calcio dato per caso al sonaglino, e poi ridato più volte con sempre minore casualità, ci rende presto orgogliosi di sentirci artefici degli accadimenti.
Questo è rassicurante, ci permette di prevedere i fatti, di controllare in qualche modo il futuro. Poi cominciamo a capire che gli eventi possono accadere in tanti modi diversi, che la nostra mente, come quella degli altri, non è sempre facilmente prevedibile. Se l’imprevedibilità non è troppo dolorosa ci si può lanciare verso l’ignoto, possiamo giocare ad esplorare il mondo e a volare con la fantasia, il futuro sarà la nostra terra di conquista e di crescita. Ma a volte il futuro rappresenta una fuga dal presente, un modo per evitare la vita quando è troppo dolorosa.
A volte le cicatrici sono sufficientemente lievi, la difficoltà di goderci il presente appieno, qualcosa dall’interno ci spinge senza sosta ad immaginarci un altro luogo e un altro tempo, un viaggio continuo senza potersi mai godere il panorama. Ma per Adele le ferite sono profonde!
La incontro alla Mensa Sociale dell’Opera don Calabria, dove all’ora di pranzo si riuniscono un centinaio di persone per prendere un pasto gratuitamente. Il motto di questo posto è: “non solo cibo e non da soli”. Cinzia Cardamone, la responsabile, sembra perfettamente in grado di creare un buon clima e non dispensare meccanicamente vivande. E’ una osservatrice acuta, mi dice: “Vedi ci sono 16 tavoli, le prime 16 persone si mettono ognuna ad un tavolo diverso, solo dopo i tavoli si riempiono, le persone si mettono insieme solo quando non ci sono più tavoli liberi”.
Ma Adele ha voglia di parlare. Mi racconta una storia di una durezza inusitata che si trasmette da generazioni: violenza, alcool, droga, carcere, molti fratelli più o meno conosciuti, un compagno che lei malmena e dal quale è abbondantemente contraccambiata, frequenti corse al pronto soccorso senza mai fare una denuncia, perché nei rapporti si può essere dipendenti anche dalla violenza. Una storia come tante, simbolo di una umanità sofferente, ma il desiderio di legame, il bisogno di rapporto con l’altro, non è morto in questa donna un po’ malconcia.
Mi chiedo: che futuro potrà avere questa persona. Qual’é il senso di questo incontro, come lo posso chiamare: sostegno? sfogo? presenza? forse è l’unica forma di psicoterapia permessa in questi casi. Quel suffisso, “terapia” accanto a “psico” mi condiziona ad una idea di guarigione che contempla un obiettivo da raggiungere. Si dice spesso che il viaggio è più importante della meta ma è difficile essere compagni di viaggio senza porsi un obiettivo comune, magari la guarigione o soltanto stare meglio, in fondo si paga per raggiungere la meta non per il viaggio.
Con Adele mi devo accontentare del presente, di condividere un’esperienza umana, di essere con lei per il breve tratto di un incontro, che non è detto debba ripetersi. Il benessere è concesso nel qui ed ora, il futuro è relegato nel breve tempo di un incontro. La speranza è che qualcosa di me vada ad abitare questa donna e qualcosa di lei entri dentro di me e che questo scambio possa arricchire entrambi.
Penso ai giovani, alle mie figlie, alle nuove leve professionali che danno vita a quello che abbiamo chiamato Ambulatorio Sociale di Psicoterapia, tutte queste persone danno l’anima in quello che fanno, sono arrabbiate ma non si rassegnano, lottano in un contenitore sociale che stenta a dar loro delle opportunità. Nella mia generazione il futuro era scontato, forse era la strada per allontanarsi più rapidamente possibile dalla guerra, dal fascismo e dalla barbarie nazista. E oggi? E’ possibile vivere senza futuro? Adele sembra una persona che non ha mai avuto un presente. E allora penso: sia nella psicoterapia che nella vita, il futuro si costruisce sulla qualità del presente.