Il testo non è un saggio né un reportage dal mondo della “tortura”, ma un romanzo composto di tre narrazioni. La scelta dello stile deriva dalla maggiore facilità di lettura, ma anche - e soprattutto - dall’idea di rappresentare, attraverso queste storie, il mondo drammatico delle donne vittime di tortura in maniera universale, dandogli una forma letteraria, poetica. Inoltre, si intende far affiorare l’incredibile coraggio e l’enorme forza di volontà di donne, spesso giovanissime, che pur sapendo di affrontare viaggi e stenti che metteranno a repentaglio la loro stessa vita, partono – a volte con minori al seguito – pur di liberarsi di oppressione, sottomissione, schiavitù, violenza. Inoltre , attraverso presentazioni del testo, si intende aprire un dibattito sul tema dell’immigrazione, mostrando chiaramente come dietro ad ogni volto di uomo o donna che fugge dal proprio paese, c’è una storia, spesso meravigliosa oltre che drammatica, e dare a tale storia una dignità letteraria; come scrive Erri De Luca: Le loro storie, gigantesche rispetto alle nostre, sono romanzi in corso, i loro viaggi sono quelli di Simbad e di Ulisse, le loro avversità quelle di santi e cavalieri erranti, braccati dalle polizie senza aver trasgredito alcun articolo del codice penale. Siamo di fronte a loro e li guardiamo in faccia. Ogni volta è la prima, perché loro sono primizia del mondo a venire, seme di miriadi che si spostano a piedi sulla superficie del mondo e con il loro peso spostano il mondo.
L’idea di questo libro nasce dalla rielaborazione di decine di interviste svolte presso il centro “Passaggio nei Territori di Giano”, il servizio per vittime di tortura e richiedenti asilo dell’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto della Povertà), Ospedale San Gallicano di Roma. Nello svolgerle, l’autore si è ripetutamente trovato di fronte a narrazioni, nel senso più alto e artistico del termine, di vicende drammatiche dalla dignità letteraria, pronte per essere rappresentate su un proscenio, per venire scritte, raccontate come dei meravigliosi classici della letteratura mondiale. Da qui, la scelta di dare una veste narrativa alle tre storie di Shirin, Aminata, Yergalum. Sono storie di donne, vittime di tortura. Da un lato testimoniano la trasversalità delle crudeltà, che non risparmia neanche bambini, dall’altra esaltano il coraggio, l’amore, la tenacia, l’incredibile forza di volontà che spinge ragazze fin lì costrette, umiliate, emarginate, segregate, mai libere, a spezzare il giogo e fuggire.
Pagano spregiudicati Caronte moderni, affrontano la Palude Stigia del mondo, infilandosi giù, fino all’ultimo girone dell’inferno. Ne riemergono diverse, purificate, per ripartire ancora, cercare pace.
Sono racconti di terre lontane, di esseri umani che ci appaiano distanti, le cui storie si dissolvono tra realtà e leggenda, tra cronaca e narrativa. L’aspetto drammatico, in realtà, è che se si eccettuano i nomi e brevi quanto marginali aggiunte - che attingono alla fantasia - è tutto vero. Le storie esposte hanno carne, ripetutamente ferita, hanno anima, violata, hanno corpi e menti che non saranno mai più come prima. Ma, soprattutto, hanno occhi.
Stanno lì a guardarti fissi, miti, pozzi di profondità, hanno già osservato tutto e attendono dignitosi che gli venga riconosciuta la regalità della sofferenza, lo status di uomo, di donna.
È quando quegli occhi si incrociano ai tuoi che immagini i film dell’orrore che hanno più e più volte visto, i fotogrammi della paura che hanno fissato in scatti indelebili nel personale archivio del terrore e, quegli occhi, non ti lasceranno più.
Lenti dell’abiezione, obiettivi dell’abisso umano, telecamere dietro cui non c’è il più grande regista di tutti i tempi, capace di rendere omaggio a vittime universali in un kolossal drammatico da en plein di oscar. A recitare non è neanche il migliore attore tragico che il cinema o il teatro abbiano mai prodotto.
Regista e allo stesso tempo protagonista di quel film, è Kadima, Janet, Afeworki…
Non conta il numero infinito, né la massa informe di vittime di sevizie che ogni giorno avvengono sulla faccia della terra. Magari appaiono omologate in un frullato di notizie che uniforma vicende umane e drammi, come se esistesse un tipo di torturato, un archetipo di vittima di violenza. Ognuna di queste donne, di questi uomini sono la Storia.
E quando passa, non bisogna che inchinarsi, guardarla tra l’incantato e l’atterrito, nel suo drammatico svolgersi, riverirla di rispetto infinito.
Dietro quegli occhi, aperto il sipario, si schiude il proscenio di una vita enormemente più interessante della nostra.
Forse l’aspetto migliore che esprime il centro “Territori di Giano” è proprio questo, la capacità di incantarsi ancora, di non abituarsi al male e di riniziare da zero ogni volta, con la curiosità umana del bambino che ascolta chi conosce a fondo la vita, la tenerezza dell’adulto che sa ancora commuoversi, la volontà del taumaturgo, che vuole ancora provare a sanare il sanabile, fosse l’ultima volta.