di Ruggero Piperno
Il Torrazzo di Cremona è alto 127 metri, si erge dritto come un fuso accanto al Duomo. Immaginatevi una squadra di operai che non si accorge che al decimo metro lo squadro non è preciso, magari roba di un millimetro, che, mentre la costruzione cresce, diventa parecchi centimetri e quando il problema risulta evidente la torre è ormai troppo storta e bisogna ributtarla giù fino a quel fatidico millimetro.
Ma i bambini non possono tornare indietro. Alberto 7 anni, non riesce a stare attento in classe, Cristian 6 anni e mezzo, viene descritto come una persona violenta che emula il padre e mette in difficoltà la madre, Stella 5 anni, pronuncia male molte lettere e ancora si fa fatica a comprenderla quando parla, Eleonora 3 anni, piange a dirotto quando va alla scuola materna, Federico 8 anni, fatica a seguire la maestra e a stare a pari con i compagni, Carlo 11 anni tende a stare solo perché si vede troppo grasso e si sente impacciato. I casi e le diagnosi si possono moltiplicare, situazioni conclamate o appena sfumate che, affrontate tempestivamente possono migliorare o guarire, mentre con l’attesa gli aspetti disfunzionali diventano più rigidi e la cura diventa più lunga, difficile, e meno efficace. Daniela Tardiola, neuropsichiatra infantile, Elena Catino e Gianluigi Passero, psicoterapeuti dell’età evolutiva, Alessia D’Alessandro e Antonio Santoro, logopedisti, Marisa Machado, psicopedagogista, costituiscono l’equipe della Sezione Età Evolutiva, dell’Ambulatorio Sociale di Psicoterapia, presso l’Opera don Calabria. “Abbiamo aperto questo centro per venire incontro al problema del ritardo delle risposte e in poco tempo siamo stati noi stessi costretti ad iniziare le liste di attesa. Per quanti sforzi facciamo, non è un problema che può essere risolto in questo modo.” Poi parlano delle loro esperienze.
Alessia: “Ad Alfredo 10 a., è stata prescritta una logopedia a novembre del 2009 ed è tuttora in attesa della chiamata. Se non lo avessimo preso in carico non avrebbe avuto alcun aiuto, considerata l’impossibilità della famiglia a far fronte alle tariffe del privato. Andrea 5 a. ha fatto la domanda al TSMREE * nel giugno del 2011 e ha avuto un appuntamento un anno e mezzo dopo solo per avere una diagnosi, poi ricomincia l’attesa per il trattamento.
La dr.ssa Catino aggiunge: ”Per i bambini con difficoltà emotiva si fanno tante diagnosi e poca terapia. A volte 4-5 incontri con i genitori possono sciogliere le loro ansie e permettere al bambino di continuare il suo percorso di crescita.” La dr.ssa Tardiola si sfoga: “Soltanto ieri ho visto quattro situazioni che nell’ultimo periodo hanno perso il loro punto di riferimento nel TSMREE di competenza per la continua precarietà dei medici. Il primo ha un ritardo cognitivo ed epilessia, e si è notevolmente aggravato per mancato controllo della terapia farmacologica. Poi sono arrivate due mamme disperate per non riuscire ad avere in tempo le certificazioni necessarie per usufruire del sostegno in vista dell’inserimento dei figli, affetti da disturbi di sviluppo, in prima elementare. Infine sono venute due maestre per perorare la causa di un bambino di 5 anni, affetto da una grave sindrome genetica, perché il TSMREE, pur avendone accertata la necessità, non riesce a garantire un regolare intervento neuromotorio e respiratorio eoseabilitazione delle dispica con quella e bene. Mi sono scoraggiata. Con i tempi attuali di presa in carico un bambino ha il tempo di impoverirsi cognitivamente, di strutturare una patologia psicopatologica, che inizialmente poteva essere solo una lieve immaturità”.
Che significa parlare di prevenzione in età adulta se si trascura l‘infanzia? Se esiste un diritto alla salute i bambini dovrebbero essere privilegiati!
*( TSMREE Tutela della Salute Mentale e della Riabilitazione in Età Evolutiva)
Martedì 19 Febbraio 2013, la piazza è gremita. Non una semplice piazzetta, ma Piazza Duomo di Milano. Attesa vociante, piena di speranze. Quand’ecco il Grillo furioso comincia la sua arringa: “Il mio grido è arrendetevi, siete circondati dal Popolo Italiano”. Ma quest’uomo è un genio, penso, che espressione eccezionale, chi sa se le inventa al momento o si prepara qualcosa nel camper. Io sono assolutamente privo di capacità oratoria e mi sento pieno d’invidia per questa mitraglietta automatica che spara frasi in grado di ammaliare migliaia di persone. «Arrendetevi – ripete – e vi prometto che non useremo violenza su di voi…” Eccezionale! Un sacrosanto inno alla non violenza. In pochi minuti ha già in mano la piazza. La gente si sente una truppa vincente e magnanima, che, guidata dal proprio generale, tiene a bada il nemico reso ormai inerme, la totalità dei politici attuali!
Poi qualcosa cambia, lo tsunami come impazzito distrugge se stesso: “…non useremo violenza su di voi… vi accarezzeremo come si fa con i malati di mente…“. Ahia, che scivolone! Ma nella foga del discorso si sarà accorto di aver suscitato questa immagine dei “malati di mente” un po’ zombizzati, immobili, privi di senno, resi bambini, magari che ciucciano il lecca lecca e vengono amorevolmente accarezzati sulla testa da medici, psicologi, infermieri, parenti e amici? Curati con carezzine! Non lo so. Forse era troppo preso dal discorso. E allora come esponente dei “malati di mente”, un movimento planetario ben più numeroso di quello dei 5 Stelle, prendo carta e penna e inizio a scrivere una letterina. Una letterina, perché i grandi scrivono lettere e i piccoli che ricevono le carezzine scrivono appunto letterine.
“Caro Beppe, scusa se ti do del tu, ma, se non ti dispiace, mi troverei meglio così. Mi permetto di scriverti, perché sono un “malato di mente”, anche se non so esattamente a chi ti riferisci quando parli di questa polimorfa categoria. Vorrei rassicurarti che non sono un marziano, ho due occhi per vedere, due orecchie per ascoltare e una bocca per parlare e che tutti questi organi sono collegati a un apparato centrale che si chiama cervello. Forse molta gente pensa che questa strana popolazione, cosiddetta di “malati di mente”, abbia questi organi di senso come optional, ma invece li usiamo per il motivo per cui l’evoluzione ce li ha forniti. Non che ci dispiaccia essere accarezzati, ma non disdegniamo neanche accarezzare. In questo reciproco accarezzare ed essere accarezzati, ci piace anche parlare, esprimere pensieri, fantasie, direi anche ragionare con le persone a cui vogliamo bene o con chi si interessa a noi. Parlare a volte ci è più utile che essere accarezzati. Anche a noi, come agli altri, fa piacere un incontro autentico e reciproco, fatto di suoni, espressioni e parole che suscitino emozioni e sentimenti. Vedi, a volte anche le carezze possono essere una lama, possono ferire perché suscitano stereotipi impropri che ci fanno sentire al margine e magari questo ci fa vergognare a chiedere aiuto. Certi che non sia stata questa la tua intenzione, per redimerti ti consiglieremmo, il film “Viva la libertà”, di Roberto Andò, che mostra sapientemente come a volte i “malati di mente” possano ragionare meglio delle persone cosiddette “normali”.
Un abbraccio, i malati di mente.
da Superando
di Luca Attanasio
Oltre duecento persone hanno partecipato a Roma a un incontro organizzato dall’Opera Don Calabria, per chiedere ai tanti rappresentanti politici presenti in sala, di farsi carico delle istanze poste dalla drammatica fase vissuta dalle persone con disabilità e dalle loro famiglie. Per l’occasione è stato anche presentato un libro fotografico, riguardante un progetto di inclusione lavorativa
«Finalmente un dibattito vero, concreto e utile». Questo il commento di alcune delle oltre duecento persone che hanno partecipato all’incontro L’inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità: dalle buone prassi alle politiche efficaci. Una sfida per la Regione Lazio [se ne legga la presentazione nel nostro giornale, N.d.R.], promosso il 18 febbraio dall’Opera Don Calabria di Roma, in collaborazione con l’Unicoop Tirreno. Infatti, nell’affollatissima Sala Conferenze dell’ente religioso – dove per l’occasione è stato presentato il testo La sopravvivenza del ragno: ovvero del buon uso della libertà, libro fotografico frutto dell’esperienza del laboratorio di inclusione lavorativa Articolo 3, della stessa Opera Don Calabria – oltre ai relatori, hanno voluto far sentire la propria voce anche numerosi membri della platea.
Nell’introduzione, Luca Attanasio, moderatore dell’evento, ha chiesto ai tanti rappresentanti politici presenti in sala (candidati al Senato, alla Regione Lazio e al Comune di Roma) di farsi carico delle istanze poste dalla drammatica fase che vivono le persone con disabilità del nostro paese. «Nonostante esista una buona legge sul collocamento obbligatorio – ha denunciato – l’80% dei disabili sono inoccupati, si moltiplicano i casi di genitori che non riescono a mandare i propri figli disabili a scuola perché manca l’assistenza o il sostegno, mentre servizi e Terzo Settore sono allo stremo».
È seguìto un appassionato intervento di benvenuto dell’ospite della casa, il direttore dell’Opera Don Calabria di Roma Fratel Brunelli, che ha ribadito il principio ispiratore dell’ente religioso, quello cioè di stare sempre dalla parte degli ultimi, mentre Francesco Reposati, responsabile dell’Area Semiresidenziale dell’Opera, ha illustrato l’organizzazione e il senso dei tanti servizi alle persone con disabilità.
«Il diritto all’inclusione sociale e lavorativa delle persone disabili – ha affermato poi Claudio Cecchini, candidato al Consiglio Regionale del Lazio – deve partire da azioni che garantiscano innanzitutto il loro diritto allo studio e proseguire con provvedimenti che vadano anche oltre il percorso scolastico. Negli ultimi due anni, la Regione ha tagliato i fondi di sostegno alle cinque Province del Lazio per i progetti di assistenza scolastica. Spero dunque che dopo le prossime elezioni questa tendenza si inverta». «All’Opera Don Calabria – ha concluso Cecchini – voglio dire che, come da molti anni, sarò al fianco di essa, portando avanti le ragioni di una profonda riforma dei servizi socio-sanitari, dell’assistenza e dell’integrazione, con una nuova legge del welfare».
Tornando al già citato esperimento condotto dal Laboratorio Articolo 3, da cui è nato il progetto editoriale della Sopravvivenza del ragno – iniziative particolarmente significative, in una fase come questa, di vera e propria “emorragia” di opportunità di inclusione sociale per le persone con disabilità, in cui la parola “crisi” si è trasformata in una sorta di “mantra” che si ripete per giustificare ruberie conclamate e, nel migliore dei casi, inadempienze, con i progetti che pervicacemente insistono nella faticosa opera di integrazione lavorativa, costretti a farlo tra mille difficoltà e riduzione di fondi e personale – va detto che la scelta di un libro fotografico ha una chiara motivazione: «Permette – ha spiegato infatti Daniele D’Orazio, fotografo e co-autore del testo – di cogliere la persona nel contesto in cui opera quotidianamente e, attraverso il colore, il movimento, il primo piano, di rendere appieno il percorso di realizzazione che questo progetto ha rappresentato per molti».
«Abbiamo inserito nove persone con disabilità – ha raccontato poi Isabella Codispoti, psicologa e psicoterapeuta del Progetto Articolo 3 – in contesti lavorativi prima protetti (le strutture dell’opera Don Calabria), poi esterni: lavanderie, ristoranti, scuole materne ecc., per tirocini. Abbiamo seguito pedissequamente gli sviluppi, operando a stretto contatto con i luoghi di lavoro, con gli enti che seguono i disabili e con le famiglie. Tutti e nove sono usciti da questo percorso rigenerati, con grande fiducia in se stessi e ben inseriti».
«Ma il processo di integrazione – le ha fatto eco la collega Silvia Zaccheddu – è stato biunivoco. Anche i datori di lavoro, infatti, si sono “integrati”, rilasciando tutti dichiarazioni entusiastiche sull’esperimento, come è possibile notare anche nelle interviste pubblicate sul libro».
«I disabili siamo tutti noi, chi più chi meno», ha chiosato Ruggero Piperno, direttore tecnico-sanitario e curatore del testo. «Una società o è solidale e saprà salvarsi unita e coesa, o si perderà definitivamente in un’idea chiusa di sé».
Di grandissimo impatto, infine, l’intervento conclusivo di Marco Dori, del Settore Risorse Umane, Area Sviluppo e Personale di Unicoop Tirreno, che ha spiegato con dovizia di particolari i percorsi di inserimento che la stessa Unicoop persegue da anni in tutta Italia e che rappresentano un vero e proprio “fiore all’occhiello” dell’azienda. «Grazie a collaborazioni come quella tra noi e Articolo 3 – ha detto – si riesce a inserire, seguire, facilitare l’inclusione della persona con disabilità e portarla ad avere, questa è la nostra esperienza, una piena collocazione e una carriera lavorativa in evoluzione».
di Ruggero Piperno
Ora che le ho detto di me, parliamo di lei. Vorrebbe sapere qual è il suo disturbo? Vede questo librone che ho sulla scrivania? Si chiama DSM V, ci sono migliaia di diagnosi, è uscito da poco, in realtà non l’ho letto perché in tanti anni ancora non ho finito quello precedente, ma per non andare troppo per il sottile le potrei dire che lei ha…:
…un difficile contatto con la realtà. Se posso essere più preciso? Guardi non vorrei che si impressionasse perché è una parola che suona male, ma oggi ci si può fare molto. Insiste per sapere come si chiama… direi una lieve forma di schizofrenia… ma le dicevo si può fare molto, ci sono farmaci moderni che la possono aiutare, certo hanno qualche effetto collaterale, fanno ingrassare e altre cose, ma se stiamo attenti possiamo attenuarli. No, questi farmaci non possono essere prescritti privatamente, la legge prevede un piano terapeutico attuabile solo in un Centro di Salute Mentale, se no li pagherebbe tutti lei. Se la posso indirizzare a qualcuno di preciso? Ho paura di non poterla aiutare perché sarebbe controproducente, ma vada tranquilla/o, ho grande fiducia che verrà accolta/o bene e con competenza. Si, oltre ai farmaci ci sono tante forme di psicoterapia, per lei da sola/o, con la sua famiglia ed altro. Vorrebbe sapere se nei Centri di Salute Mentale fanno queste terapie? Certo, questi centri hanno la massima esperienza in questo campo, anche se dipende un po’ da zona a zona, perché i centri sono territoriali.
…per non usare paroloni potrei dirle che lei ha un carattere un po’ iroso, sono contento che abbia chiesto un aiuto, sa nei casi come il suo è raro che la gente accetti di farsi aiutare. Pensa che sia una cavolata? Va bene, ma non c’è bisogno d’irritarsi… Ci sarebbero dei farmaci che la potrebbero aiutare. Non ne vuole neanche sentire parlare? Allora potremmo provare a vederci qualche volta e farci una chiacchierata. Pensa che non serva a nulla. Capisco, ma allora perché è venuto? Perché se no sua moglie minacciava di lasciarla… Forse potrebbe venire con sua moglie? Bene, conto che ci rifletterà.
…un disturbo comunissimo tanto che la diagnosi se l’è fatta da sola. Attacchi di panico, il disturbo più tragico sul piano soggettivo ma anche meno pericoloso nella realtà. La posso rassicurare che non corre alcun reale rischio fisico. Certo che si può curare e i pareri sono quasi unanimi: psicofarmaci, che aumentano una sostanza nel suo cervello che si chiama serotonina, e psicoterapia di stampo cognitivo comportamentale. Se anche io sono d’accordo? Abbastanza. Penso che sarebbe utile uno psicoterapeuta che abbia uguale attenzione ai suoi sintomi ma anche ad altri aspetti della sua personalità e questo dipende più dalla persona che dalla scuola, per quanto riguarda i farmaci a volte sono molto utili a volte se ne può fare a meno. Vorrebbe sapere se potrà guarire completamente? Vede, questo onestamente non glielo posso promettere, ritengo che potrà stare sicuramente meglio, anche molto meglio. Questo periodo potrebbe essere solo un brutto ricordo, ma potrebbe riverificarsi qualche periodo di difficoltà.
di Ruggero Piperno
Ogni paziente deve essere informato, per legge, sulle cure che gli vengono proposte. La psicoterapia non dovrebbe fare eccezione. Orientamento professionale del terapeuta, diagnosi, finalità e obiettivi della cura, durata, costo, possibilità alternative, sono considerate informazioni indispensabili. Il compito è in realtà un po’ arduo sia per la complessità che per i tabù ancora legati ai disturbi psichici. Un breve e un po’ paradossale colloquio virtuale, declinato in tre post su questo blog, può aiutarci a farci un’idea.
“Cara/o signora/e, lei vorrebbe sapere il mio orientamento professionale. La capisco, è una materia molto complessa che rischia di apparire complicata. Solo nella città in cui viviamo ci sono oltre sessanta scuole di psicoterapia.
È una disciplina molto prolifica? Si, ma a volte l’interesse delle scuole a ritagliarsi nicchie di mercato sembra prevalere sulla ricerca di culture alternative. Del resto la psicoterapia è una disciplina poco oggettiva per cui ognuno la può interpretare un po’ a modo suo. Potrei dirle dove ho preso il mio diploma, ma prendere un titolo in una scuola non equivale ad appartenere per l’eternità alla stessa. Man mano che si cresce ci si dovrebbe differenziare e questo significa divergere, emanciparsi. Per me, che sono un medico psichiatra, il titolo di psicoterapeuta è compreso nel pacco dono della specializzazione.
I miei colleghi psicologi e i medici che non vogliono fare psichiatria, possono ottenere lo stesso titolo nelle scuole di specializzazione in psicoterapia, la maggior parte delle quali sono private (i medici sono di gran lunga una minoranza rispetto agli psicologi).
No, non c’è un grande sbarramento per essere ammessi.
Che differenza c’è fra uno psichiatra psicoterapeuta e uno psicologo psicoterapeuta? Nessuna quando fanno psicoterapia, ma gli psichiatri e i medici psicoterapeuti possono prescrivere degli psicofarmaci, gli psicologi no. Sono dunque i farmaci a differenziare queste due categorie? Non so, ma forse senza questo aspetto le distinzioni non avrebbero più tanto senso.
Si è vero, spesso anche gli psicoterapeuti sono stati a loro volta pazienti, io, per esempio, ho fatto una cura psicoanalitica. È indispensabile per diventare psicoterapeuti? No, la legge non lo prevede, molti pensano che sia utile, per alcuni è indispensabile, per altri superflua.
Sì, oltre alla psicoanalisi ci sono altri orientamenti ugualmente importanti, ad esempio le scuole cognitivo comportamentali, quelle di terapia familiare, quelle di gruppo e chissà quante altre. Vorrebbe sapere le differenze e, con tutta franchezza, se ce n’è una migliore. Guardi che è un bel ginepraio perché tutte queste scuole si suddividono in molte sottoscuole, talvolta possono essere più simili psicoterapeuti di scuole diverse che colleghi della stessa scuola. Personalmente nel corso di questi anni mi sono reso conto che le persone vengono in psicoterapia per motivi molto diversi, che magari cambiano nel corso del trattamento. Allora ho cercato di calibrare il mio metodo alle loro mutevoli necessità piuttosto che selezionare i pazienti in funzione del mio modello.
Quindi, visto che mi chiamo Ruggero mi definirei un ruggeriano. Ho passato il segno? Mi vede come un eclettico opportunista, un relativista presuntuoso e senza scrupoli, un Frankenstein che le ha messo ancora più confusione? Capisco, ma le confesserò una debolezza, non amo le razze pure.