di Luca Attanasio
Bastavano emicranie ricorrenti, tic nervosi, timidezza per finire nel progetto “Aktion T4”, il famigerato piano di sterminio sistematico di circa 200 mila persone con disabilità presunte o conclamate, di cui cinquemila bambini. È la Shoah dei disabili, l'eccidio dimenticato che ha fatto da battistrada ai campi di concentramento e all’ideologia della superiorità della razza, del super-uomo. Dopo aver presentato lo scioccante film-documentario di Silvia Cutrera “Vite Indegne, nazismo e disabilità”, al microfono di Luca Attanasio, Antonio Parisella, presidente del Museo Storico della Liberazione di Via Tasso, a Roma, spiega la scelta di celebrare la Giornata della Memoria ricordando la storia di questo olocausto.
R. - Lo sterminio dei disabili è il primo passo: la prova che viene fatta a partire della metà degli Anni ’30 fino alla vigilia della guerra, per eliminare tutti coloro che costituivano un peso sociale. Si comincia quindi a distinguere tra le persone di peso “indegne” di vivere, e coloro che sono gli uomini o i “superuomini”. È la frattura nella dignità della persona umana nelle culture tradizionali, di quella cristiana e quella del razionalismo laico, per distruggere una certa Europa e costruire un’altra idea di organizzazione sociale: quella della realizzazione della “super razza” attraverso i superuomini selezionati biologicamente. Il cardinale di Monaco, Von Galen, alzò forte la sua voce per denunciare lo sterminio dei disabili, ripetendo sistematicamente nelle sue omelie domenicali tutti gli elementi in cui questa politica contrastava con la legge naturale e con il messaggio cristiano. Questo servì a fermare - sia pure temporaneamente - il loro sterminio.
D. - Qual è il senso di celebrare la Giornata della memoria proprio a partire forse da uno degli stermini più dimenticati?
R. - La Giornata della memoria se ha un senso, non è solo quello della contemplazione archeologica: riallaccia la memoria con il presente. In una situazione di crisi economica, ad esempio a soffrire maggiormente sono quelli che hanno più bisogno. La nostra società a volte è complice di stermini sotterranei, di cose che non si vedono. Gli anziani, i disabili… la memoria deve legarsi a questi problemi.
da Redattore Sociale del 23-01-2013
di Alessandra Ravelli
MILANO. Quando ha spento le 18 candeline sulla sua torta di compleanno sperava, insieme ai genitori, che fosse finalmente giunto il momento di chiedere la cittadinanza italiana, come hanno diritto di fare le seconde generazioni tra il diciottesimo e il diciannovesimo anno di età. Di origine albanese, figlio di immigrati regolari residenti in Italia da molti anni, questo ragazzo è, però, affetto dalla sindrome di Down e la legge n. 91 del 1992 non lo considera idoneo a presentare la richiesta. ''Il nodo del problema sta nel giuramento, passaggio imprescindibile quando si vuole ottenere la cittadinanza – spiega Mascia Salvatore, responsabile dell’ufficio legale del portale online stranieriinitalia.it, che ha sollevato la questione in un articolo del 4 gennaio 2013-: chi ha una qualunque disabilità mentale viene considerato incapace di intendere e di volere e, dunque, di chiedere in modo consapevole di diventare cittadino italiano”.
Nemmeno è possibile che sia il tutore della persona interdetta a prestare giuramento al suo posto. “Lo scoglio sta proprio nel fatto che il giuramento è un atto personalissimo, un po’ come il matrimonio, e dunque, nessuno può pronunciarlo per conto di qualcuno d’altro”, sottolinea Gaetano De Luca dell’ufficio legale di Ledha. Anche lui si è scontrato con questo problema; dall’autunno del 2011 segue un caso simile, ancora in attesa di una sentenza definitiva da parte del Tar di Roma. Anche Andrea Sinno, responsabile del servizio di consulenza “Telefono D” dell’Aipd (Associazione Italiana Persone Down), non sa come aiutare il figlio di una donna sudamericana che, nato e cresciuto in Italia, si è presentato alla questura di Roma per richiedere la cittadinanza, ma è stato rimandato indietro con le stesse motivazioni. “La prima soluzione che ci è venuta in mente per risolvere il problema –spiega Sinno- è stata quella di richiedere una procedura d’ad! ozione di urgenza da parte del compagno italiano della signora. Il problema è che il ragazzo aveva già raggiunto la maggiore età e questo non è stato possibile. Ora vorremmo richiedere l’affidamento ad un amministratore di sostegno, una figura sostitutiva a quella del tutore, che agisce per conto della persona con disabilità solo in alcune specifiche situazioni e quindi verrebbe a cadere la presunzione che sia totalmente incapace di intendere e volere”.
Una questione da Azzeccagarbugli, quindi, che forse potrebbe essere risolta se l’Italia rispettasse la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18 del 2009: “Obbliga gli Stati firmatari a riconoscere alle persone disabili la libertà di movimento, il diritto di scegliere la propria residenza e anche quello di cambiare cittadinanza”, afferma De Luca di Ledha. Sarà dunque questo che sosterrà l’avvocato in tribunale per vedere finalmente riconosciuto un diritto fondamentale a chi si ritrova a vivere in un Paese dove origine straniera e disabilità sono ostacoli in apparenza insormontabili.
di Ruggero Piperno
Il corpo differisce dalla persona per via dell'anima. L'anima di cui sto parlando corrisponde al mondo interno, alla soggettività, al senso di sé, se poi il divino ci mette lo zampino è cosa troppo difficile per la mia comprensione. L'anima non è per sua natura vanitosa, ma vorrebbe essere riconosciuta senza chiederlo, riconoscimento che nell'epoca attuale stenta ad arrivare. Una riprova è che parole come amicizia, fratellanza, amore, vengono considerare desuete, ridicole o espressione esse stesse di debolezza. Senza anima la società tende a desertificarsi, si prosciuga il senso di appartenenza che nasce dalla condivisione di ideali, il senso di sicurezza che nasce dalla la diffusione della solidarietà, il senso di giustizia che nasce dalle pari opportunità.
È quindi doloroso ritrovare oggi l'anima in uno stato di abbandono, per merito anche di coloro che più di altri dovrebbero sostenerla, medici, insegnanti, operatori delle professioni di aiuto e perfino preti, che a volte la cercano più in cielo che in terra, e psichiatri che scambiano le neuroscienze per il corpo. La famiglia rimane il contenitore emotivo più diffuso ma è fragile ed isolata, le grandi istituzioni, scuola, sanità, giustizia, annaspano nel gestire gli aspetti specifici del proprio mandato e non riescono neanche minimamente a porsi il problema dell'anima di coloro verso i quali hanno degli obblighi istituzionali e questo le allontana dalla compassione e dal'empatia che dovrebbero accompagnare la cura, la giustizia, l'insegnamento. Le cure possono essere eccellenti, ma il prendersi cura, il comprendere lo spaesamento di chiunque vada incontro a una malattia, entri in un pronto soccorso, in un reparto, in una sala operatoria, in un tribunale, in un carcere o sia oggetto di discriminazione in una scuola, è praticamente inesistente.
Questa premessa è necessaria per capire il retroterra di una cura chiamata psicoterapia, così complessa da rimanere misteriosa anche agli addetti ai lavori. Penso dunque che qualunque sia il motivo che spinge una persona a chiedere una psicoterapia, (da un problema psicopatologico, a un conflitto familiare, da uno stress o un trauma ad una non accettazione di se stessi), dietro ci sia sempre un senso di solitudine, di ricerca intima di vicinanza affettiva, di fame di riconoscimento, che ogni essere umano dovrebbe trovare nel proprio ambiente. Da qualche tempo ci troviamo di fronte a un particolare fenomeno: da una parte la sempre maggiore difficoltà a mettersi autenticamente in contatto con se stessi e con i propri simili, una sorta di progressiva aridità della vena intersoggettiva sociale, dall'altra il fiorire, in ambito psicoterapeutico, proprio del concetto d'intersoggettività, visto come la capacità del terapeuta e del paziente di condividere ed esplicitare reciproci stati soggettivi della mente.
Attenzione! Il pericolo per la psicoterapia è di accettare che un malessere sociale diffuso trovi rimedio in una pratica sanitaria specifica. Il pericolo per la società è di delegare alla psicoterapia una funzione che dovrebbe essere parte integrante della cultura di tutto il pianeta: il riconoscimento, l'accettazione e l'ascolto di un’altra persona.
da Superando.it
di fratel Giuseppe Brunelli e Luigi Politano
«Vogliamo impegnarci a creare le condizioni perché si verifichino stabili cambiamenti strutturali che permettano alla persona con disabilità di sviluppare e potenziare concretamente le sue capacità nel lavoro, utilizzandole al meglio»: è il messaggio rivolto al futuro Presidente della Regione Lazio, da parte delle tante organizzazioni aderenti al FORUM – Disabilità-Formazione-Lavoro di Roma
Nel luglio del 2012 – promosso dall'Opera don Calabria e dalla Comunità di Capodarco – abbiamo costituito a Roma il FORUM – Disabilità-Formazione-Lavoro. Attualmente hanno aderito all'iniziativa, sottoscrivendo il Manifesto Fondativo, quasi quaranta tra associazioni, enti e rappresentanze sindacali, nonché molti professionisti del settore sociale e sanitario, tutti preoccupati per il continuo ridursi delle opportunità di inclusione sociale per le persone con disabilità, ma, nel contempo tutti fortemente determinati a ricercare nuove strade, per proporre progetti efficaci e favorire l’inclusione lavorativa, perché non siano né la crisi, né i soli meccanismi del mercato a decidere le opportunità lavorative delle persone con disabilità.
Per tutti noi – e quindi, senza distinzione alcuna, anche per le persone con disabilità – il lavoro ha un profondo valore perché offre la possibilità di autorealizzarsi, di rivestire un ruolo attivo nella società, di raggiungere livelli soddisfacenti di autonomia psicologica ed economica e di partecipazione sociale. Del resto è ciò che afferma negli articoli 3 e 4 la nostra Costituzione, e che viene riaffermato anche dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall'Italia con la Legge 18/09.
Noi vogliamo che questi solenni princìpi non rimangano una pura enunciazione ideale, ma siano parte fondamentale di ogni azione politica, per rafforzare il riconoscimento del diritto al lavoro delle persone con disabilità con la rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e il pieno sviluppo della persona umana.
Non possiamo però negarci il fatto che comunque l'inclusione lavorativa delle persone con disabilità incontri spesso notevoli ostacoli. Non basta, infatti, orientare genericamente il nostro lavoro verso la prospettiva inclusiva. Noi vogliamo impegnarci a creare le condizioni perché si verifichino stabili cambiamenti strutturali che permettano alla persona con disabilità di sviluppare e potenziare le sue capacità e utilizzarle al meglio.
Per tutto questo chiediamo al futuro Presidente della Regione Lazio che si faccia convinto promotore di un diverso approccio politico nel Governo della Regione, segno di discontinuità con il passato.
Investire sulle capacità delle persone con disabilità, sostenendone le risorse e individuandone le possibilità, significa, a nostro parere, creare uno stile e un diverso modo di occuparsi della cosa pubblica, che riverbera e generalizza un benefico influsso sulla vita di tutti i Cittadini e che, con molta probabilità, permetterà di esercitare una sana riorganizzazione della spesa senza ridurre servizi e qualità della vita per tutti i Cittadini del Lazio.
Ci permettiamo, pertanto, di suggerire alcuni temi per noi fondamentali, per dare unitarietà e strutturazione operativa a tale approccio politico.
Un programma che pone al centro il lavoro ha bisogno di una visione, di una programmazione e di un governo unitari, considerando la scuola, la formazione e i processi di inclusione lavorativa come un unico percorso che ha bisogno di attivare una nuova interazione fra sistemi sia a livello “macro” (politiche, welfare, sistema sociale e istituzionale, piani sociosanitari regionali e territoriali) che a livello “micro” (la famiglia, la scuola, il lavoro, i servizi alla persona, la mobilità, il “dopo di noi-durante noi”, il tempo libero, lo sport…).
Si tratta, in sostanza, di creare condizioni di sviluppo grazie alle quali si renderanno disponibili opportunità occupazionali altrimenti impossibili, permettendo altresì una limpida applicazione della Legge 68/99 e consentendo la sperimentazione di nuove modalità di inclusione socio/lavorativa.
Si tratta, inoltre, di promuove sinergie “istituzionali” tra cooperazione, imprese e politiche di sviluppo, tese a garantire “cittadinanza” di diritti e doveri non solo per le persone con disabilità.
Da ultimo, vogliamo sottolineare che i processi di inclusione richiedono servizi di sostegno efficienti e professionisti motivati. È certamente necessaria una loro riorganizzazione, partendo dall’ormai improcrastinabile integrazione sociosanitaria.
Nel Lazio ci ritroviamo un sistema di servizi molto complesso ed eccessivamente frammentato, a volte ridondante e inadeguato, che fa fatica a dialogare con i suoi vari componenti. La separazione tra “sociale” (assistenza) e sanitario (cura) è la “madre di tutti i disagi operativi”, di tutti gli esasperanti “giri dell’oca” che i Cittadini sono costretti a compiere, e forse di tanti sprechi di risorse.
L'istituzione del Distretto Sociosanitario, punto unico di riferimento per tutti i Cittadini in relazione a programmazione – indirizzo – coordinamento – valutazione, rapporti amministrativi e accesso unico per i servizi sociali, sociosanitari e sanitari, potrebbe risultare un primo passo di semplificazione e di rispetto dell’unitarietà della persona. L’inserimento, poi, in ognuno dei Distretti Sociosanitari del Servizio per l'Inclusione Lavorativa (SIL) delle persone con disabilità completerebbe il sistema delle risposte.
Siamo a completa disposizione, per avviare, dal basso, una nuova stagione di buona qualità sociale per tutti i Cittadini della Regione Lazio, partendo, ovviamente, da coloro che da soli fanno fatica a tenere il passo.
di Luca Attanasio
L’Opera Don Calabria festeggia i suoi 80 anni di presenza a Roma: offre con competenza servizi e progetti a scopo riabilitativo, assistenziale e ricreativo, diurni e residenziali accreditati e convenzionati con le istituzioni, rivolgendosi a persone con problemi di salute mentale e alle loro famiglie. Nella capitale è presente anche una casa di accoglienza, che prevede un’ospitalità di tipo turistico-alberghiero e uno studentato per sacerdoti e religiosi provenienti da Diocesi dei Paesi in via di sviluppo e per studenti fuori sede che frequentano le Università romane. Luca Attanasio ne ha parlato con mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas romana, Claudio Cecchini, assessore alle Politiche sociali della Provincia di Roma, e fratel Giuseppe Brunelli, direttore dell’Opera Don Calabria:
D. – Mons. Enrico Feroci, l’Opera Don Calabria festeggia 80 anni di presenza a Roma, di vicinanza ai più poveri…
R. – Io come direttore della Caritas non solo esprimo il ringraziamento ma anche l’incoraggiamento da parte della Diocesi di Roma. Con la Caritas, l’Opera Don Calabria collabora già da molti anni.
D. – L’Opera Don Calabria è uno dei soggetti promotori dell’iniziativa “Roma reciproca”…
R. - Come Caritas ho cercato di mettere insieme alcune realtà che vivono e che servono i poveri in questa città di Roma. E vogliamo dare un messaggio speciale in questo senso proprio come Chiesa di Roma.
D. – Assessore Claudio Cecchini che significato ha questa presenza dell’Opera Don Calabria a Roma?
R. – Ha un grande significato perché in questi 80 anni a Roma, in vari quartieri, l’Opera Don Calabria ha rappresentato una presenza estremamente significativa, radicata sul territorio a contatto con la gente, e ha anche saputo modellare i propri servizi in risposta all’evoluzione sociale e culturale. Servizi che sono stati realizzati nell’originalità e nell’autonomia della Congregazione ma anche sempre ricercando un rapporto di leale collaborazione con le istituzioni. Noi stessi, come Provincia, abbiamo insieme realizzato una serie di servizi.
D. – Fratel Giuseppe Brunelli, una sua riflessione su questi 80 anni …
R. – E’ un anniversario che ci teniamo molto a celebrare ma è anche un impegno rinnovato per essere fedeli a quel carisma che ci ha portati a Roma nel 1932, dove i nostri primi religiosi di quel tempo hanno iniziato una vera epopea di donazione e di sacrificio, di ricostruzione nelle famose borgate. Lì c’è stata una comunità, un fermento evangelico, che ha scoperto la ricchezza di stare dalla parte dei poveri.
D. – 80 anni significa anche essere anziani, ma lo spirito è sempre giovane …
R. - Lo spirito non invecchia e qui abbiamo uno spirito che veramente è attuale e ringiovanito, autentico, a partire dai più deboli ed è lì il segreto. La nostra missione è scoprire quel Gesù Cristo che vediamo nel povero.